Se un classico è un libro che non ha mai finito di trasmettere quello che ha da dire, secondo la celebre disamina di Italo Calvino (“Perché leggere i classici”, Mondadori, 1991), ci sono allo stesso modo scrittori e intellettuali che non smettono d’interrogare il lettore. L’importante è che non li si riduca a “venerati maestri” da celebrare e non da leggere. È il caso di Leonardo Sciascia e, in occasione dell’anniversario del sequestro di Aldo Moro e dell’uccisione brigatista di cinque agenti (16 marzo 1978), risulta prezioso rileggere il suo “L’affaire Moro”, pubblicato per Sellerio nel 1978 e per Adelphi nel 1983.
Oltre alla rigorosa analisi da illuminista volterriano e il magnifico incipit sul “ritorno delle lucciole” e sul “fraterno e lontano” Pasolini, le parole di Sciascia esprimono umanità e tormento. Quando ricorda la telefonata del terrorista che annunciava l’esecuzione del presidente della Democrazia Cristiana, e il suo singolare soffermarsi al telefono, così scrive: “Forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vivere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti.”
Non meno interessante appare scoprire aspetti meno battuti della personalità dello scrittore di Racalmuto. Così avviene nel caso dello speciale «Porte aperte. Leonardo Sciascia e il cinema», curato da Gabriele Rigola, docente di Discipline cinematografiche alle Università di Torino e di Genova, per la Rivista internazionale di studi sciasciani «Todomodo», realizzata dagli “Amici di Leonardo Sciascia” (Anno VII – 2017, Leo S. Olschki Editore, http://www.amicisciascia.it/).
Il volume contiene scritti degli studiosi Rossana Cavaliere, Giaime Alonge, Federica Villa, Emiliano Morreale, Claudio Bisoni, dello stesso Rigola e del regista Roberto Andò, allievo di Sciascia, in seguito a un Colloquium svolto al Circolo dei Lettori di Torino nel novembre 2016. Sempre all’interno del libro, sono presenti altri approfondimenti: dalle “Genealogie indirette” di matrice letteraria al tema discusso dei “professionisti dell’antimafia” trent’anni dopo.
Osserva Gabriele Rigola nell’introduzione dal titolo “Una storia (non) semplice. Sciascia e il cinema, prospettive di ricerca”: “Obiettivo principale di questa raccolta di saggi (…) è di fare il punto sulle reciproche influenze e sui rapporti intrecciati tra Sciascia e il cinema, avanzando se possibile nuove piste d’indagine e rinnovate metodologie d’analisi.” Da qui la necessità di rivedere “quell’insieme di resoconti, memorie, scritti, appassionate testimonianze dello (e sullo) Sciascia spettatore negli anni del cinematografo, andando a considerare alcuni aspetti della sua biografia, fino all’intenzione più volte esplicitata di iscriversi, da giovane, all’Istituto di Cinematografia e di fare il regista.”
Un secondo obiettivo è quello di “rinvigorire l’interesse per le opere filmiche tratte da (o ispirate a) romanzi e racconti dello scrittore siciliano, prestando attenzione tanto al risultato filmico, e al confronto con l’opera originale, quanto alle fasi intermedie di lavoro, ai materiali preparatori, alle sceneggiature degli adattamenti. La varietà dei testi audiovisivi tratti da Sciascia inquadra l’eterogeneità delle problematiche sollevate”: da “A ciascuno il suo” di Petri (1967) a “Il giorno della civetta” di Damiani (1968), “Cadaveri eccellenti” di Rosi (1976), “Todo modo” di Petri (1976), “Porte aperte” di Amelio (1990) e “Una storia semplice” (1991) e “Il Consiglio d’Egitto” (2002) di Greco, tra gli altri. Il tutto senza dimenticare gli apporti diretti alla stesura di alcune sceneggiature come “Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” di Vancini (1972).
Di conseguenza, con rigore metodologico e appassionata spinta alla rivisitazione, s’indaga sull’essenza della scrittura di Sciascia e sul suo rapporto differente con il cinema rispetto a Soldati o Pasolini. S’intende “utilizzare lo scrittore per ampliare l’orizzonte di studio su letteratura e audiovisivo, su intellettuali e cultura visuale”, come scrive il curatore, avanzando “qualche delimitata e circoscritta ipotesi sui rapporti tra scrittura e storia delle immagini.”
Ricchi d’intuizioni, i saggi sono i seguenti: “Effetto cinema. Excursus tra le pagine di Sciascia” di Rossana Cavaliere; “Adattare Sciascia. Due studi di caso” di Giaime Alonge; “«Qualcosa che somiglia alla felicità». Leonardo Sciascia e la difficoltà del darsi a vedere” di Federica Villa; “La grazia e il labirinto” di Emiliano Morreale; “Ognuno a proprio modo. Sciascia, Petri, l’impegno, il cinema” di Claudio Bisoni; “«Si potranno metter dentro i preti e gli Osservatori Romani?». Una prima indagine sulla corrispondenza sciasciana e il cinema” di Gabriele Rigola; “Lo scrittore e i suoi labirinti. Il potere delle immagini e l’invisibilità del male in Leonardo Sciascia” di Roberto Andò.
In particolare, quest’ultimo contesta il luogo comune che ha messo in rapporto la sua scrittura con il cinema, soprattutto l’idea che la letteratura del grande scrittore abbia ispirato i film da essa derivata per una congenialità con quel mezzo. Analizzando la sua opera come un’ininterrotta riflessione sulla morte e sul potere, si evince il suo carattere saggistico e il suo legame con la fotografia. Una sorta di filosofia dell’immagine, incentrata sul ritratto e sul volto, come strumento d’investigazione e di lotta contro l’invisibilità del male.
In linea con quanto scrive Morreale sull’originale (per la tradizione italiana) impianto da “giallo morale e religioso”, affine a Kafka e Dürrenmatt, senza tralasciare Gadda, scrive Andò: “Se il potere è il Male, i romanzi gialli di Sciascia non possono concludersi con l’immagine fittizia di un ripristinato ordine poliziesco. (…) Già Italo Calvino, commentando le anomalie di A ciascuno il suo, aveva osservato come sembrasse concepito per dimostrare «l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano». Insomma, terminata la lettura dei romanzi di Sciascia, non si riceve alcun dato chiaro, ma si assume che l’unica chiarezza possibile è l’incertezza, o la confusione”, spiega il regista.
Rigola e Andò svelano pure i dettagli della mancata collaborazione fra Sciascia e Michelangelo Antonioni, in occasione del film “L’avventura” (1960), e il regista ricorda pure un fraintendimento con Sergio Leone che lo portò a rifiutare bruscamente l’apporto ai dialoghi per un western. Un modo per sottrarsi alle “lusinghe del cinema” e coltivare le proprie specificità letterarie.
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